La plastica che inquina mare e spiagge, recuperata e convertita in un nuovo “petrolio”, da utilizzare come combustibile, vernici, solventi o per produrre nuove plastiche.
Un team di ricercatori di Enea ha sviluppato un processo che permette la riconversione di oltre il 90% delle plastiche recuperate, con un duplice beneficio: per l’ambiente e per l’economia circolare.
«Abbiamo sottoposto i campioni di plastica ad un particolare trattamento termo-chimico, chiamato pirolisi, che consente di decomporre, a una temperatura sopra i 400°C e in assenza di ossigeno, il materiale plastico di partenza in olio e gas ricchi di idrocarburi potenzialmente sfruttabili per la produzione di nuovi combustibili e prodotti chimici», spiega Riccardo Tuffi, ricercatore del Laboratorio Enea di Tecnologie per riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, autore della ricerca coi colleghi Lorenzo Cafiero e Doina De Angelis. L’esperimento risponde alla direttiva europea sugli imballaggi e sui rifiuti connessi, che ha fissato obiettivi di riciclaggio della plastica al 50% entro il 2025 e al 55% entro il 2030. «Per migliorarne resa e qualità, abbiamo utilizzato un catalizzatore, ricavato a sua volta dalla lavorazione di un materiale di scarto, ovvero le ceneri prodotte dagli impianti di gassificazione e di combustione del carbone - precisa Tuffi, raccontando di un altro traguardo importante della ricerca, perché si tratta di un rifiuto industriale molto inquinante la cui produzione mondiale annua è di 1 miliardo di tonnellate - mentre il suo utilizzo per la sintesi di catalizzatori potrebbe rappresentare un passo verso la sostenibilità dei processi produttivi». Secondo una recente indagine, nessuna delle oltre 100 piccole e medie imprese che trattano i rifiuti plastici marini ha utilizzato la pirolisi. «Nel prossimo futuro, invece, piccoli impianti di pirolisi installati nei porti potrebbero addirittura produrre carburante per le imbarcazioni a partire proprio dalla plastica recuperata in mare», conclude Tuffi.