La prima reazione è stata di incredulità. Come è potuto succedere che il presidente e il ministro degli Esteri abbiano volato insieme in una situazione di pessima visibilità, su elicotteri che tutti sanno essere vecchi e mal mantenuti? Le sanzioni che l'Occidente applica a Teheran fanno scarseggiare i pezzi di ricambio, la cosa è risaputa. E gli elicotteri in Iran risalgono tutti all'epoca precedente alla rottura con gli Usa, sono vecchi, con una tecnologia superata e inaffidabile. L'incredulità nei centri di potere americani era comprensibile, dunque, mentre si aspettava di sapere cos'era esattamente successo a Ebrahim Raisi e a Hossein Amir Abdollahian, ma lo stupore della Casa Bianca è stato immediatamente sommerso da numerose pressanti preoccupazioni sul futuro, tanto che il presidente Joe Biden - che ha convocato una riunione d'urgenza - ha chiesto di essere tenuto in costante aggiornamento sugli sviluppi della situazione.
Neanche a farlo apposta, proprio negli ultimissimi giorni, gli Stati Uniti erano riusciti a riportare Teheran al dialogo, fra due inviati americani e due iraniani, ospiti del Sultanato di Oman. La sorte di Raisi dunque assumeva ieri un'importanza anche maggiore. Per quanto il presidente iraniano appartenga a una corrente intransigente e fortemente autoritaria, ha comunque accettato l'appello di Joe Biden ad agire per evitare l'allargarsi della guerra di Gaza a tutto il Medio Oriente. E il dialogo in Oman, tanto difficile da essere gestito tramite un mediatore che portava i messaggi da una camera all'altra onde evitare l'incontro diretto degli americani e degli iraniani, era comunque un'apertura, la prima da quando Iran e Israele si erano scambiati attacchi violenti all'inizio di aprile. Complicato e delicato, l'incontro è comunque stato un successo, tanto che l'agenzia di informazioni di regime in Iran, l'Irna, aveva commentato: «Questi negoziati non sono stati i primi, né saranno gli ultimi».
NESSUN CONTATTO DIPLOMATICO
Per capire l'importanza di questi commenti, basti ricordare che Stati Uniti e Iran non avevano contatti diplomatici del 1980, e che ciascuno dei due Paesi giudica l'altro un nemico acerrimo. Ad aumentarne l'importanza va aggiunto il fatto che l'incontro in Oman è avvenuto proprio mentre il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan concludeva una visita nella confinante Arabia Saudita per un abboccamento con il principe ereditario Mohammed bin Salman. La bilaterale sembra sia stata proficua, come si legge nella dichiarazione delle parti che definiscono gli accordi strategici fra i due Paesi come oramai giunti «alla versione semi-finale».Negli accordi si precisa che «si sta lavorando tra le due parti sulla questione palestinese per trovare un percorso credibile». In altre parole, il paziente lavoro di tessitura della diplomazia sembrava, nel fine settimana appena trascorso, indicare la strada verso verosimili e possibili negoziati per la soluzione della guerra a Gaza. Non è un caso che Sullivan, dopo aver salutato il principe Bin Salman, sia partito per Israele, dove ieri pomeriggio ha incontrato il premier Netanyahu, sia per presentargli la strada per recuperare il trattato con l'Arabia Saudita, congelato dopo l'attacco terroristico di Hamas dello scorso 7 ottobre, ma anche per ribadirgli la convinzione sulla necessità di risolvere la guerra di Gaza garantendo ai palestinesi il loro Stato. La richiesta, che oramai giunge sia dall'Unione Europea che da Washington, dall'Onu e dalla Lega Araba, è sul tavolo di Netanyahu anche per iniziativa di un membro del suo stesso governo, con Benny Gantz, che guida il partito di Unità Nazionale, che gli ha imposto un ultimatum con vari punti, tra i quali proprio quello di affrontare la futura governance del territorio. Tanto lavoro di tessitura diplomatica da parte del Dipartimento di Stato USA sembrava ieri appeso a un filo tenue.