Un nuovo colpo alla presenza occidentale in Niger.
Il ritiro delle truppe statunitensi dal Niger inizierà già nei prossimi giorni, hanno spiegato le fonti del governo al New York Times. Circa mille uomini che insieme ai droni Reaper dovranno abbandonare il Sahel dopo mesi di dubbi, minacce e di estenuanti trattative. L’amministrazione Biden ha fatto di tutto per evitare che le truppe lasciassero il più grande avamposto Usa nella regione. Ma la situazione è apparsa critica specialmente negli ultimi due mesi.
SVOLTA
Il 12 marzo una prima delegazione statunitense composta da due alti funzionari e dal comandante di Africom, Michael Langley, era arrivata a Niamey per provare a chiarire la situazione con i militari al potere. Ma quella due giorni di incontri non aveva avuto alcun effetto positivo. Le distanze tra le parti erano apparse già incolmabili, tra accuse di legami con Mosca e di accordi sottobanco per cedere l’uranio all’Iran (di cui il Niger è ricco). Al punto che dopo tre giorni dalla partenza dei delegati Usa, il Niger ha annunciato il definitivo “ordine di sfratto” in un discorso sulla tv nazionale pronunciato dal colonnello Amadou Abdramane, portavoce della giunta. Per i militari, la presenza Usa nel Paese era "illegale" e contro "tutte le regole costituzionali e democratiche". E nel frattempo, è arrivata la notizia che è apparsa la pietra tombale di qualsiasi cooperazione con Washington. In Niger arrivavano i primi cento consiglieri militari russi, pronti ad addestrare le truppe nigerine all’utilizzo di un non precisato sistema di difesa aerea (forse il Pantsir 2, dicono gli esperti). L’ultimo campanello d’allarme prima della manifestazione dello scorso sabato, quando centinaia di persone hanno chiesto il ritiro delle forze statunitensi. Il corteo ha avuto la stessa scenografia delle proteste che animano il Paese da quando è avvenuto il golpe che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum. Le persone scendono in strada, inneggiano al nuovo governo, sventolano bandiere del Paese. E insieme a quelle nazionali, agitano anche bandiere russe ed effigi con il presidente Vladimir Putin. Un messaggio che non ha mai lasciato spazi a dubbi. Ma per gli Stati Uniti era essenziale evitare di dare l’impressione di ritirarsi immediatamente. E soprattutto su indicazione di una giunta militare che ha deposto un loro alleato.
Le operazioni del Pentagono ad Agadez sono ferme praticamente dal giorno del golpe. Ma quella base da cento milioni di dollari è da anni uno dei pilastri della strategia degli Usa in Africa. Da dove Washington controlla non solo il Niger, ma tutta l’Africa occidentale. Un occhio sulle milizie locali, sui movimenti terroristi di Al Qaeda e del sedicente Stato islamico. Ma soprattutto un ultimo avamposto in un Sahel dove l’Occidente inizia ad arretrare sempre di più a scapito dei suoi rivali strategici. Prima con la Francia e ora con gli Stati Uniti. A rimanere ancora nel bollente Paese africano, crocevia di rotte migratorie, oscuri traffici, e interessi delle grandi potenze, l’Italia e i partner dell’Unione europea. Che tra addestramento delle forze locali e sostegno alla popolazione, cercano di non abbandonare il Niger e l’intera regione a un destino che appare sempre più incerto e sicuramente lontano dall’Occidente. Nell’ultimo bilaterale a Capri tra il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il segretario di Stato Usa Anthony Blinken, il capo della diplomazia americana ha ribadito l’importanza di mantenere una presenza italiana ed europea in Sahel «per evitare una ulteriore destabilizzazione». L’Italia è in prima fila. Ma senza il sostegno Usa e dei maggiori partner europei, la missione di Roma appare sempre più complessa.