La diversità è un fatto, l’inclusione una scelta.
Un claim potente, quello ripetuto come un mantra da Annie Wu, head of inclusion & diversity di H&M Group. Un tema sensibile che unisce politiche aziendali internazionali con un focus sull’Italia con l’intento di una vera e propria rivoluzione culturale. Un tema che ha dato anche il titolo a una tavola rotonda voluta dal colosso svedese a Milano, con la partecipazione di Paola Profeta, pro-rettrice per diversità, inclusione e sostenibilità alla Bocconi di Milano, Erika Fattori, responsabile brand & communication di Nexi, membro del direttivo Women&Tech® ETS e promotrice di Women Empowerment Program e Francesca Vecchioni, presidente fondazione Diversity.
La sua azienda è una multinazionale con sede a Stoccolma. In Svezia, nelle aziende, a che punto siamo sul discorso parità di genere?
«L’uguaglianza di genere è ben radicata e promossa nei Paesi nordici, regolata dalla legge e integrata nella cultura del lavoro.
Una situazione ben diversa rispetto all’Italia. Cosa si potrebbe fare?
«Tutto dovrebbe partire quindi da un forte cambiamento nella cultura aziendale: se si è paritari ed equi nel dare le stesse opportunità a tutti, non si avrà bisogno di una vera e propria regolamentazione esterna. Se non si offrono le stesse opportunità a entrambi i sessi, a lungo andare si ostacola la capacità di attrarre i migliori talenti. Un’azienda moderna che voglia svilupparsi ed essere competitiva, deve lavorare per la soddisfazione delle persone, attraverso un impegno che vada oltre le attuali disposizioni di legge: i suoi manager devono premiare i risultati ottenuti allo stesso modo, valorizzando le competenze di tutti, con la massima inclusione e senza distinzioni, senza alcun pregiudizio di genere».
In Italia più di 44mila donne madri lavoratrici si sono dimesse nel 2022 per l’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia.
«È un tema su cui va posta particolare attenzione. Il posto di lavoro e i percorsi di carriera non devono essere messi in discussione in caso di maternità, che deve essere considerata una risorsa per l’azienda e per la società e deve avere la massima tutela, sia attraverso il rispetto della normativa, sia attraverso un approccio aziendale che tenga conto delle esigenze specifiche che si creano contemporaneamente per le madri».
In H&M come è regolata?
«Consideri che in H&M la nostra leadership è composta per oltre il 70% da manager donne, e credo che la rivoluzione parta da qui: è naturale pensare a delle leader che siano anche madri e lavoratrici».
Il vostro modello scandinavo è stato traslato anche nelle sedi italiane?
«Decisamente sì. Con la sottoscrizione del Contratto Integrativo Aziendale dello scorso agosto, abbiamo esteso la durata del part-time post-partum per un periodo fino ai 6 anni di età del bambino, sia per le madri che per i padri, prevedendo inoltre per i neo genitori, che lavorano nei nostri punti vendita, che non venga pianificato più di un turno di chiusura a settimana, fino al compimento di un anno di età del bambino e due a settimana per il secondo anno di vita. Abbiamo previsto il congedo parentale extra time per entrambi, madri o i padri (anche dello stesso sesso). Se ci sono dipendenti inseriti in programmi relativi alla violenza di genere, l’azienda concede ulteriori 6 mesi di aspettativa, oltre ai 3 mesi di congedo retribuito già previsti dalla legge, in caso di discriminazione di genere».
Si parla spesso di moda inclusiva, secondo lei è vero?
«La cultura è moda e la moda è cultura. L’obiettivo comune deve essere quello di renderla accessibile il più possibile. Posso dire che H&M come brand è davvero inclusivo, sia per l’offerta di capi prezzi vantaggiosi, sia per la disponibilità di un’ampia gamma di taglie e di modelli, fruibile attraverso il nostro e-commerce. Siamo molto attenti al marketing, è essenziale che la nostra comunicazione e l’immagine che trasmettiamo riflettano chi siamo e in cosa crediamo. I nostri brand ambassador, ad esempio, vengono scelti per rappresentare la nostra moda e il nostro design in senso positivo, diverso e sano. Ma l’inclusione richiede miglioramenti e adeguamenti costanti, quindi non possiamo mai dire di aver concluso il nostro lavoro in questo campo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA