​Berlusconi, le amicizie con Bush e Putin, il miracolo di Pratica di Mare e il G8 dell'Aquila: la politica estera del Cav

Silvio era rimasto un grande imprenditore, un formidabile opportunista in affari come in politica, un mediatore che doveva la sua autorevolezza al consenso in casa e alle sue molte vite, dalla Tv al calcio all’economia, che lo rendevano popolare anche all’estero

Lunedì 12 Giugno 2023 di Marco Ventura
Berlusconi in politica estera, dal miracolo di Pratica di Mare al G8 dell'Aquila

Anche l’agilità conta, in politica estera. Era il 28 maggio 2002 e Silvio, come gli altri capi di governo chiamavano Berlusconi, aveva 65 anni, una padronanza geniale dei meccanismi dei media e la confidenza diventata ormai una solida amicizia con George W. Bush e Vladimir Putin, i leader del mondo “pre-Cina”.

Un istante prima del flash dei fotografi, con un balzo Silvio si tuffò tra i due e poggiando le sue mani sulle loro, suggellò con un sorriso sgargiante quello che all’epoca fu il miracolo di Pratica di Mare. Un’impresa lungamente voluta e preparata: l’associazione della Russia alla Nato sancita dalla Carta di Roma e sottoscritta dai 19 leader dell’Alleanza e da Putin. Un’intesa che spaziava dalla lotta al terrorismo alla gestione delle crisi, dal controllo degli armamenti alla collaborazione nel salvataggio in mare e nelle emergenze civili. Fu, forse, il suo maggior successo in politica estera, ma non l’unico.

Il rapporto con i leader mondiali

Silvio era rimasto un grande imprenditore, un formidabile opportunista in affari come in politica, un mediatore che doveva la sua autorevolezza al consenso in casa e alle sue molte vite, dalla Tv al calcio all’economia, che lo rendevano popolare anche all’estero. Ed era un travolgente battutista. Un uomo simpatico, un po’ come Chirac che però in pubblico indossava l’uniforme dello statista austero. Berlusconi era quello che era con tutti, prendere o lasciare. Era capace di simpatizzare con arabi e israeliani, russi e americani, greci e turchi. La sua intesa con Chirac era profonda, a differenza di quella mai decollata con Sarkozy. S’intendeva di più col socialdemocratico Schroeder che con la Merkel. Era intimo di Erdogan (“Sono l’avvocato della Turchia in Europa”, amava ripetere). Sapeva farsi concavo coi convessi e convesso coi concavi. Ha avuto il coraggio di avvicinare di più l’Italia a Israele, riequilibrare la nostra politica mediorientale a trazione filo-palestinese, e al tempo stesso a rafforzare le relazioni coi Paesi arabi e musulmani. Da vero equilibrista. Davanti alla Knesset, in un memorabile discorso uscì dal testo criticando gli insediamenti nei Territori ma subito dopo, a Ramallah, a un giornalista palestinese che voleva sapere cosa avesse provato passando per il Muro rispose: “Perché, c’è un Muro? Non me ne sono accorto”.

Il discorso al Congresso Usa

Tenne un discorso applauditissimo al Congresso Usa. E conquistò per l’Italia una scena internazionale commovente e impeccabile, quando “costrinse” i grandi della Terra a riunirsi per il G8 del 2009 fra le rovine dell’Aquila ancora scossa dal terremoto. Nella famosa telefonata per la quale fece attendere la Merkel in un vertice Nato parlava realmente con Erdogan e lo convinse a ricucire con l’Alleanza in un momento di crisi buia tra Ankara e Bruxelles. A Sirte, al termine di un vertice della Lega araba al quale era stato invitato, unico leader europeo, volle rimanere a oltranza, chiudendo a notte fonda il contenzioso sui visti tra la Libia e l’Unione europea. E non volle “far trapelare” che era stato lui a escogitare la formula che aveva messo tutti d’accordo. Il giorno che Gheddafi a tradimento dirottò il corteo delle due delegazioni nel deserto e lo portò al Museo dei crimini italiani, Silvio ebbe un altro colpo di genio: sul libro dei visitatori mise nero su bianco le scuse dell’Italia per quella pagina di storia nazionale e spianò così la strada al Trattato di amicizia con Tripoli con cui l’Italia archiviò il contenzioso coloniale (operazione mai riuscita alla Francia con l’Algeria). Berlusconi era assistito da diplomatici di razza come Gianni Castellaneta, in seguito ambasciatore a Washington, e Giampiero Massolo, segretario generale della Farnesina oggi presidente dell’Ispi, che misero al servizio dell’Italia e del suo premier idee che non necessariamente coincidevano sempre con quelle di Berlusconi. Silvio aveva con le feluche un rapporto di amore-odio, si affidava a consiglieri competenti e riservati come Valentino Valentini.

Le amicizie

Per lui, la politica estera era fatta anche di amicizie e momenti informali, come con Bush Jr. che andò a trovare al Ranch di Crawford, tra i pochi leader ammessi alla “Casa Bianca dell’Ovest”. Sull’aereo di Stato, prima di decollare, disse a noi che eravamo suoi collaboratori: “Cercheremo di convincere il cowboy a non fare la guerra”. Non vi riuscì e l’Iraq fu invaso, ma almeno ci provò. A Soci, sul Mar Nero, Putin lo venne a prendere al volante dell’automobile e gli diede “un passaggio” fino all’albergo del bilaterale. Sarkozy stesso, col quale ebbe scontri terribili fino alla guerra in Libia (che Berlusconi cercò di evitare in tutti i modi), gli riconobbe un ruolo decisivo nel superare la crisi russo-georgiana dell’agosto 2008. L’appello allo “spirito di Pratica di Mare” fermò i carri armati di Mosca. Negli ultimi giorni in cui Gheddafi era braccato nel deserto, il suo dolore fu reale. Berlusconi soffriva perché si sentiva responsabile di avere tradito una promessa di amicizia verso un uomo che era in pericolo di vita. È ancora l’amicizia ad averlo indotto a errori di valutazione sulla guerra in Ucraina, quando ha dato credito alla versione dell’amico Putin e per la prima volta si è ritrovato su posizioni antitetiche all’atlantismo che era il suo faro ideale, da anticomunista qual era.  

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